Mettere al mondo un bambino può diventare un trauma?

La gravidanza e il parto, da sempre, rappresentano momenti significativi e influenti nella vita di una donna. Nell’antichità la partoriente veniva assistita dalla levatrice che aveva il compito di consolarla, alleggerirle i dolori e aiutarla nell’espulsione del feto.

Con l’innovazione tecnologica del Novecento, la gravidanza ha iniziato una graduale medicalizzazione a causa di diversi fattori, come ad esempio l’elevato numero di mortalità perinatale e la mortalità materna. Senza dubbio la scienza e le tecnologie hanno fatto passi da gigante in questo ambito, dando la possibilità ai genitori del bambino di seguire passo dopo passo la gravidanza. Tuttavia, come ogni cosa, “il troppo stroppia”. Al giorno d’oggi, soprattutto nei paesi più sviluppati si tende ad effettuare un numero di ecografie e visite ostetriche superiore rispetto alle reali necessità. Ciò potrebbe tradursi nella mamma con una maggiore insicurezza e una dipendenza sempre maggiore dall’istituzione medica.

In Italia un fenomeno poco conosciuto riguardo la gravidanza è la violenza ostetrica. Questa è stata definita per la prima volta  a livello giuridico nel 2007 in Venezuela come “appropriazione del corpo e dei processi riproduttivi della donna da parte del personale sanitario, che si esprime in un trattamento disumano, nell’abuso di medicalizzazione e nella patologizzazione dei processi naturali avendo come conseguenza la perdita di autonomia e della capacità di decidere liberamente del proprio corpo e della propria sessualità, impattando negativamente sulla qualità della vita della donna”.

Nel 2014, L’OMS, Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito questo tipo di violenza un grave problema di salute globale che mette a rischio il benessere e la salute della madre e del bambino.

Fondamentalmente con il termine violenza ostetrica si fa riferimento all’insieme di trattamenti irrispettosi e abusanti durante e nei giorni successivi al parto. Tra questi ci sono l’umiliazione nei confronti della madre, l’abuso fisico, la mancanza di riservatezza, il rifiuto di offrire adeguate terapie per il dolore e la mancanza di consenso informato.

In Italia, gli ultimi dati raccolti riguardo questo fenomeno risalgono al 2017 attraverso l’istituto specializzato in sondaggi di opinione Doxa in collaborazione con OVOItalia (Osservatorio sulla Violenza Ostetrica Italia). Secondo questo sondaggio, che ha preso in considerazione 5 milioni di donne con figli di età compresa tra 0 e 14 anni, circa 1 milione di madri italiane hanno subito violenza ostetrica durante il parto o il travaglio; 4 donne su 10 hanno dichiarato di aver subito azioni lesive della dignità personale e il 6% ha deciso di non intraprendere una seconda gravidanza dopo l’esperienza traumatica.

In risposta ai dati del sondaggio di OVO, le società e associazioni di ostetrici e ginecologi (come SIGO, AOGOI e AGUI) hanno organizzato una contro-indagine prendendo in considerazione 11.500 partorienti in 106 punti nascita. Da questa indagine è risultato che il 95% delle donne si sono ritenute soddisfatte dell’assistenza ricevuta e il 92% consiglierebbe la stessa struttura a un’amica.

Questa tematica, quindi, risulta ancora più complessa e necessita di essere affrontata su due strade differenti: se da un lato viene valutato complessivamente in maniera positiva l’accompagnamento durante la nascita in Italia, dall’altra parte emerge una problematica sulla condizione della partoriente che, seppur con una minore percentuale, non può essere considerata marginale.

Alla luce dei dati mondiali, l’OMS, per ridurre la frequenza della violenza ostetrica, suggerisce un maggiore supporto dei governi nella ricerca del fenomeno riguardo il trattamento irrispettoso nei confronti delle partorienti ed inoltre esorta a mettere in evidenza i diritti delle donne in questo tipo di assistenza.

Simona De Toma