I significati di un albero – di Bartolo Di Pierro

Ritorno a distanza di mesi, a giochi fatti e polemiche sedate, sulla questione della installazione della statua di Papa Giovanni Paolo II in Piazza Diaz. Lo faccio da credente e da architetto perché comprendiate quanti significati vengono espressi attraverso la sistemazione di un angolo di città.

Ricapitoliamo brevemente gli accadimenti. I familiari del Brigadiere Giuseppe Coletta, una delle vittime dell’ attentato del 2003 contro le forze dell’esercito italiano a Nassiriya, chiesero al Comune di Bisceglie, nel 2019, di poter ricordare la memoria del loro congiunto attraverso la installazione di una statua dedicata a Karol Wojtyla realizzata, a loro spese, in piazza Diaz al vertice di via Aldo Moro. A questa nobile e apprezzabile intenzione  non corrispose un’ opera pari, in qualità estetica. La statua eseguita, detta eufemisticamente: non aveva e non  ha qualità artisticamente memorabili trattandosi di immagine oleografica eseguita in  forma di vetroresina dipinta simil bronzo. Il parere favorevole dato dal Comune suscitò ben presto grandi critiche in città da parte di un gruppetto di oppositori, per due motivi. Il primo fu meramente estetico e di ubicazione urbanistica, troppo centrale ed identificante.  Il secondo invece fu fortemente politico. Secondo alcuni la statua di Wojtyla era divisiva e irrispettosa degli altri credo religiosi, perché ostensiva di una fede di parte, in un mondo tendente al pluralismo delle religioni. Gli oppositori della statua, nei giorni di esecuzione del suo basamento , di notte, compirono addirittura un gesto dimostrativo di protesta piantando, nel loco della futura statua, un alberello di quercia. La famiglia Coletta non reagì espiantando l’albero ma lo accolse come un dono, trapiantandolo accanto alla statua.

Da architetto credente, alcune considerazioni personali sulla vicenda voglio condividerle con voi.

La costruzione di luoghi sacri, dove per sacro non intendo restrittivamente “religioso” ma estensivamente “comunitario”, cioè capace di aggregare in un comune riconoscimento gruppi più o meno ampi di uomini, è un bisogno insopprimibile, prima ancora che un diritto, di una  comunità urbana. Un bisogno di sacralità, se non palesemente oltraggioso nei confronti di qualcuno (razzismo) , non crea danno a chi non si riconosce nei valori di quella sacralità. Non nega “agli esterni”  la possibilità di esprimere i loro diversi valori in altro luogo e altro modo. Valga per la città quanto vale, per il Codice Civile, per i condomini. Chiunque puo’ usare , nel rispetto delle norme vigenti, un bene pubblico a fini personali a condizione che sia possibile ad altri fare altrettanto. La sacralità di un luogo non viene generata dalla qualità artistica ma dalla funzione simbolica dell’ oggetto sacrante (monumento). Tuttavia l’arte, attraverso la sua capacità di produrre bellezza, ha la capacità favorire l’allargamento dell’azione sacralizzante del  monumento, estendendola anche a chi non si riconosce nel simbolo rappresentato. Se il monumento e’ oggettivamente bello ogni  polemica cade.

Nel caso della statua di piazza Diaz, i suoi limiti estetici hanno consentito di prestare il fianco ad attacchi che hanno travalicato gli aspetti della sola manifattura. La polemica lanciata dai laicisti ha fatto leva sull’esito artistico della statua di Woityla, ribadisco scadente, per giungere,  esplicitamente, a colpire il simbolo in sé  e di conseguenza  la, secondo loro, invadente presenza di simboli religiosi in città. Se la polemica fosse stata solo di natura estetica o artistica il movimento anti-statua  avrebbe dovuto già emergere , da tempo, attivandosi contro diversi, presunti, monumenti laici commemorativi , installati anni addietro in città ,davvero poco, poco, qualitativi. L’obiettivo invece era altro: sollevare la questione della laicità dello Stato e della subordinazione reverenziale delle autorità comunali nei confronti di quelle religiose cattoliche. I laicisti protestatari hanno creduto di sollevare una polemica che non c’e’ stata perché, nei fatti, la vicenda della statua di papa Giovanni Paolo II non ha coinvolto né la comunità cattolica né la Chiesa locale, in contrasto con le istituzioni comunali. È stata solo una polemica nata e vissuta  tutta all’ interno della dialettica della politica cittadina. Il committente della statua, infatti, non e’ stata la Diocesi ma la famiglia del Brigadiere Giuseppe Coletta, martire, devo dire non sufficientemente ricordato, morto durante un servizio per conto dello Stato. La scelta di ricordare la memoria del soldato attraverso l’effige di Karol Wojtyla è stata una precisa volontà della famiglia del caduto, famiglia  a cui, secondo me,e nessuna forza politica o civile  ha il diritto di criticare la  manifestazione della propria fede e devozione cristiano-cattolica. Piuttosto, mi sarei aspettato che fosse compresa ed apprezzata la scelta della famiglia Coletta di affidare all’effige di un missionario di pace, foss’anche ahimè cristiano, e non ad un milite, il messaggio pacifista di chi ha subito un dolore familiare immenso, durante un conflitto.

Io ritengo che “la laicitàdello Stato e la pluralità delle fedi” sono ideali validi ma astratti. Si devono confrontare con la reale condizione di una comunità. Lo Stato e’ una astrazione idealista. Lo Stato e’ costituito da uomini reali i quali professano in larga parte fedi ed in Italia con prevalenza cristiana. Negare legittimità di espressione a questa maggioranza mite di credenti, contrapponendo loro la presunta divisività dei loro simboli, rispetto alle fedi altrui, e’ una gigantesca ipocrisia. La laicita’ dello Stato non è una proibizione alla fede ma la apertura delle Istituzioni alla relazione, priva di pregiudizi, verso qualsiasi tipo di fede, favorendone la convivenza. Se la laicità viene espressa come negazione di ogni espressione religiosa pubblica, diventa l’affermazione di una nuova religione: la religione di Stato cioe’ la fede nella non-fede. Cari laicisti, vi infastidirà il sentirvelo dire, ma anche il non credere e’ una fede giacche’ ne’ io che son credente né voi che non lo siete possiamo dimostrare indubitabilmente che esista o meno l’aldilà. Il negare l’espressione ad ogni fede genera un silenzio che altri non è che l’inno dell’ateismo, il canto della fede nella fine  di  fedi. Una contraddizione in termini.

Che la volontà di affermazione laicista, nel caso della statua di piazza Diaz, sia stata una volontà anticredente, prima ancora che anticattolica, lo dimostra il simbolo che i laicisti hanno scelto da contrapporre alla statua del papa, nella sortita notturna: un albero. A loro dire l’albero di quercia è un simbolo storico della nostra città, capace di esprimere valori condivisi da tutti. Questa motivazione sarebbe accettabile se l’albero fosse stato piantato in piazza Diaz come iniziativa originaria e non protestataria contro una effige di un papa. Se si impone una forma significante  in opposizione ad un’altra, semanticamente, la forma opponente  costruisce inevitabilmente un rapporto dialettico con la forma opposta e modifica il suo significato. La quercia piantata in piazza Diaz non può più dirsi un semplice simbolo formale di una città ma diviene, storicizzandosi nel contrasto, simbolo teorico-teologico contrapposto ad altro simbolo teorico-teologico preposto ovvero progettato. Non si tratta più di un bell’albero piantato in una piazza per abbellirla, o di un pezzo evocativo della Natura, o  di un  segno ecologista, ma di un albero piantato come messaggio escatologico contrapposto al messaggio escatologico trasmesso dall’immagine di un papa. Questo, semanticamente, a chi sa ben leggere, significa contrapporre ad una fede un’altra, fosse anche una non-fede. E quale sarebbe allora la fede contrapposta? Quale il messaggio lanciato da un albero contro un papa? Quale la teoria escatologica che i laicisti propongono con l’albero? Chi ne è il teorico?

Probabilmente gli amici laicisti non ne sono neanche consapevoli ma piantare simbolicamente un albero in opposizione all’immagine di un delegato a testimoniare in terra il Cristo significa contrapporre alla teologia cristiana il “Deus sive Natura” di Baruch Spinoza cioè significa simbolicamente  affermare, attraverso il simbolo albero, che Dio non è una entità esterna all’universo, Creatore e Padre come crediamo noi cristiani ma Dio è la Natura stessa, Dio è immanente o meglio che Dio è  l’altro nome  della Natura. Questo impianto teorico Spinoziano, legittimamente credibile, si porta però dietro di sé conseguenze che sono difficili da gestire, miei cari amici laicisti. Per Spinoza, poiché tutto è Natura, tutto è  necessità fisica, biologica, chimica, molecolare, chiamatela come volete voi  e quindi nell’ Universo non c’e’ né finalità, né libertà. Secondo Spinoza, quindi, noi uomini non abbiamo nessuno scopo da raggiungere nella nostra vita se non sopravvivere. Ma ciò che più inquieta e’ che, secondo la visione spinoziana, noi uomini non siamo liberi delle nostre scelte le quali avvengono dentro di noi meccanicamente  senza che siamo noi, con la nostra volontà, a determinarle. Piantare un albero, come contrapposto simbolo alla libertà donata da Dio del  credo cristiano, significa affermare che, in qualità di Natura, noi uomini non siamo responsabili delle nostre azioni. Vi rendete conto che significa questa tesi sull’impianto etico che regge il sistema giuridico delle leggi? Vi rendete conto che affermare che tutto e’ Physis significa affermare che siamo animali incapaci di intendere e di volere? Pietre che rotolano aveva definito la nostra esistenza Spinoza.In un mondo di sola Natura e senza libertà’ ognuno non sa  quello che fa.

Vogliamo infine soffermarci sul valore di “condivisione” affermato dai laicisti e espresso con un atto forzoso, clandestino e notturno, confrontandolo col sentimento “divisivo” della famiglia integralista cattolica Coletta che ha risposto,  all’azione di protesta dei laicisti , realizzando la coesistenza reale  fra statua e albero? No, non lo farò. Non mi soffermerò. Glisso concludendo con una affermazione assolutamente oggettiva ed inopinabile. Cari amici protestatari, l’albero che avete piantato è seccato. L’aveste almeno  innaffiato, di tanto in tanto.

Arch. Bartolo Di Pierro